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Montagna abbandonata - Parte 1


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In bilico tra desolazione e fascino.

Si è costruito in tempi in cui erano le risorse di prossimità a fornire i materiali d'opera.

Non ditte specializzate nell'edilizia o ingegneri ma mani contadine e saper fare tramandato dall'esperienza. Non credo che durante l'edificazione - lì dove si era strappato al bosco spazio per le colture, da dissodare e spietrare con fatica e inevitabile pazienza - sia mai passato nella mente il pensiero del futuro abbandono di ciò che la gente stava duramente creando, per necessità.


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Famiglie che si reggevano in piedi prevalentemente con l'autoconsumo ed altri espedienti come l'emigrazione stagionale "di mestiere" per ricavare un piccolo reddito. Famiglie che diventavano comunità, nuclei fondamentali per la sopravvivenza.


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I pochi ancora in vita ricordano quei tempi come spensierati, semplici ma paradossalmente pieni di tribolazioni, fatica e talvolta di fame. La spensieratezza era perlopiù collegata alla stagionalità e quindi alla ciclicità, al contatto umano, alla genuina semplicità degli intrattenimenti: chiacchierate, canti, balli, riti.


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Comunità che si avvicinavano al concetto sociologico più classico, ovvero organismi, micro-sistemi spesso indipendenti, espressioni di tre forme più essenziali di comunità: parentela, vicinato e amicizia, che si amalgamavano innanzitutto grazie a legami obbligati o necessari, prima che ricercati e desiderati. Dei veri e propri ecosistemi.


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Come tutti gli ecosistemi, quando alcuni tasselli vengono meno, a causa di perturbazioni interne o esterne, l'equilibrio si spezza, le comunità crollano. La gente ha cominciato ad andarsene. Lo spopolamento della montagna dei due secoli scorsi - mi permetto di lasciare fuori dal ragionamento gli ultimi decenni, anche se potrebbero tranquillamente essere inclusi - è avvenuto per necessità, va sottolineato.


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Le comunità sono salite e scese dalla montagna - modellandola, utilizzandola per quanto possibile, abbandonandola, riconquistandola e dimenticandola - sempre per necessità. L'abbandono forse è più precipitoso banalmente per una questione di gravità, nel senso fisico del temine: servono meno energie per scendere, andare e lasciare indietro ciò che è stato costruito, rispetto a salire, arrivare e costruire.


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Nella foga dell'abbandono, nella speranza di una vita meno faticosa, molto è rimasto.

Sono rimasti oggetti, edifici ma anche segni del pensiero e degli intenti, elementi del sapere rurale, espressioni estetiche e spirituali.


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Quelle persone che hanno costruito, forse non ci avevano pensato. Non avevano pensato che un giorno quegli elementi - legno, pietre, ghiaia - che avevano così faticosamente e sapientemente maneggiato, sarebbero tornati da dov'erano venuti. Muri, tetti, fienili, campi non stanno svanendo, stanno cambiando forma. Quello che svanisce sono i ricordi di un certo modo di vivere, della connessione obbligata con la ciclicità del tempo e della semplicità. Non ho una visione particolarmente romantica del rapporto con la natura in quei tempi: estinzione di specie animali, consumo insostenibile dei boschi e delle sue risorse, impoverimento - per l'amor del cielo, anche creazione - di alcuni habitat. Per non parlare delle difficoltà e delle pressioni sociali e religiose nelle relazioni in famiglia e in comunità.


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Però forse qualcosa andrebbe recuperato, soprattutto di fronte a una probabile nuova tendenza di ricolonizzazione dei monti, dovuta a una nuova necessità: sopravvivere alla crisi climatica.

Ma su questo magari ragionerò un'altra volta.


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Fotografie scattate in analogico su rullino Kentmere Pan400, in Alta Val di Susa, novembre 2023.



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